Ieri sera in Auditorium si è tenuta la prima esecuzione
assoluta del concerto per violoncello e orchestra di Silvia Colasanti in un concerto formato panino, come faceva Abbado, quando presentava un brano di Franco Donatoni o di Luigi Nono tra un Mozart e un Beethoven perchè altrimenti il pubblico lo vedevi con il binocolo.
Parlare
di musica in genere è quasi impossibile; se si tratta di un brano nuovo, appena
composto, l’impresa è un po’ disperata soprattutto dopo un solo ascolto. Se si
va a leggere ciò che critici del passato scrivevano dopo l’esecuzione di una
nuova composizione si possono leggere cose del tipo: “Il critico deve ammettere
che, dopo aver esaminato queste strane sonate, cariche di difficoltà, si sente
dopo un lavoro diligente e faticoso come un uomo che avesse sperato di fare una
passeggiata con un amico di genio in mezzo a un bosco invitante e si ritrova
invece la strada sbarrata ogni minuto da ostacoli ostili, tornando alla fine
esausto e senza alcuna soddisfazione… Ricercato, ricercato e niente di
naturale, niente canto. Per essere precisi c’è solo un ammasso di scienza qui,
senza un buon metodo… una propensione per strane modulazioni, un rifiuto delle
relazioni tradizionali, un accumulo di difficoltà su difficoltà fino a far
perdere ogni pazienza e ogni godimento.”
L’autore di cui parla questo critico
della Allgemeine Musikalische Zeitung era Beethoven e le sonate erano quelle
per violino e pianoforte Op. 12. Considerando che di critiche così, se non
peggio, se ne possono leggere decine per autori come Brahms, Bruckner, Mahler,
Wagner, ecc., si capisce che i critici non sono in possesso della verità rivelata. Io, che non
sono un critico, mi limito a dire alcune impressioni. Innanzitutto nel giro di
meno di tre anni, questa è stata la quarta volta che mi è capitato di ascoltare
musica di Silvia Colasanti (qui un documentario su di lei), ad iniziare dal concerto per violino ascoltato
proprio in Auditorium con Massimo Quarta nel novembre 2009. In secondo luogo,
per qualche motivo, nella musica di Silvia Colasanti ho spesso trovato degli
aspetti interessanti per cui a me, allo stato attuale, la musica di Silvia Colasanti, per quello che
conosco anche attraverso Youtube, piace. Ascoltando la musica della Colasanti
mi pare, inoltre, di ritrovare da un pezzo all’altro dei momenti simili, come
delle sigle, ad esempio quei passaggi velocissimi degli archi che formano come
delle ondate, o certe alternanze di forte/piano che trasmettono una certa
inquietudine e tensione, lo sfociare di tensioni accumulate su frasi ostinate,
in tempo lento o rapido, in frasi
estremamente liriche ed intense come nel concerto per violino alla cadenza, o
nel primo quartetto dove ad un certo punto la viola e il violoncello cantano
una bellissima frase; cioè la Colasanti ha una sua riconoscibilità e questo non
mi pare poco. Forse qualche maligno potrebbe dire però che questo è segno di
una certa ripetitività, ovvero che la musica della Colasanti, alla fin fine è
sempre un po’ uguale a se stessa, si ripete un po’. In effetti, per ora,
potrebbe anche fare questo effetto in alcuni pezzi, e appunto per questo sarà interessante seguirla nelle
prossime composizioni. Parlando del concerto, ad un primo ascolto, mi è piaciuto
perché mi ha confermato quanto già conoscevo di lei, ad esempio lo splendido
secondo quartetto e mi ha colpito soprattutto tutta la parte dalla metà,
all’incirca, in avanti, con la cadenza e tutta la parte finale che svanisce
sugli armonici. Molto bravo il violoncellista David Geringas, dedicatario del
pezzo che è stato scritto dalla Colasanti su commissione dell’Orchestra Verdi.
Il concerto della Colasanti era incorniciato da due brani di
Brahms, l’Ouverture Tragica e la prima sinfonia. L’Ouverture Tragica è stato il
primo brano del Brahms sinfonico che ho conosciuto e credo che questo brano,
anche per la sua brevità, sia un buon inizio per conoscere Brahms, assieme alle Variazioni su un tema di Haydn. Nell’Ouverture Tragica mi pare ci sia un po’
tutto Brahms, soprattutto per la sua capacità di scrivere un brano partendo da
elementi minimi come un intervallo o uno spunto ritmico; anzi, almeno per me,
il mio interesse per la musica di Brahms risiede proprio in questa capacità di
elaborare la materia musicale in un continuo processo di variazione, come nel
primo movimento della IV sinfonia (diretto da Kleiber!!!!!) basato su un motivo di terze discendenti o
nel brano pianistico che amo sopra ogni cosa, non solo di Brahms, l’Intermezzo in La maggiore op. 118 n. 2 che nasce da una seconda discendente seguito da una
terza ascendente (do#, si, re), e che fa di Brahms non un retrogrado
accademico, come una certa critica voleva far credere, ma un compositore che guardava
molto avanti; ma su ciò già Schoenberg ha scritto cose ovviamente molto più
importanti di quelle che scrivo io e quindi non vado oltre.
La prima sinfonia, invece, è uno dei monumenti della musica
dell’800, terminata da Brahms a 43 anni. Questa sinfonia nacque dopo un parto
piuttosto lungo un po’ perché Brahms si sentiva investito della responsabilità
di scrivere una sinfonia dopo Beethoven, ma soprattutto perché non si sentiva
ben sicuro nel trattamento dell’orchestra e dei suoi colori. La sinfonia fu
definita da von Bulow “la decima di Beethoven”, con un tono, mi sembra, un po’
sprezzante (non mi pare che fosse un complimento) come se a Brahms non potesse
essere riconosciuto il fatto di aver scritto la sua prima sinfonia, una sinfonia che, a
ben vedere, con Beethoven non aveva grandi punti di contatto. Certamente c’è la
quasi citazione dell’Inno alla gioia nel finale, talmente evidente che, come
diceva Brahms, se ne accorgerebbe anche un asino, ma tutto lo sviluppo della
sinfonia, con quei timbri puri dell’oboe nel secondo movimento, il clarinetto
nel terzo, il corno sempre nel secondo in dolce colloquio col violino primo e
nel finale con il grande “tema di Clara”, il trattamento degli archi e il colore dell'orchestra così denso, tutto questo è molto brahmsiano. Ad
essere sincero fino in fondo di questa sinfonia a me non piace la chiusa
finale, che trovo troppo esteriore; certamente Brahms voleva chiudere con una
grande perorazione che desse una impressione di grande forza, però mi pare che
gli mancasse una certa convinzione (ben altra cosa Beethoven o Bruckner). Molto migliore sarà il finale della seconda
sinfonia.
Dirigeva il giovanissimo direttore Aziz Shokhakimov, nato in
Uzbekistan nel 1988. Lo osservavo anche con un po’ di tenerezza perché ha la
stessa età di mio figlio, tenerezza ancora maggiore con la quale guarderò e
ascolterò stasera nella sala degli Amici del Loggione la giovane pianista Irene
Veneziano (1985), sempre che un altro impegno che già si profila all’orizzonte non
me lo impedisca. Comunque Aziz
Shokhakimov ha dimostrato, quanto meno, di avere delle notevoli doti tecniche
ed una grande energia; fin troppa, in certi momenti con un volume di suono
quasi eccessivo. Non parlo mai delle interpretazioni, o meglio, non le giudico perché
sono, appunto, interpretazioni di un testo e quindi corrispondo ad una visione
dell’interprete che io rispetto sempre. Nello specifico del Brahms di Shokhakimov
mi è piaciuto molto come ha fatto il secondo movimento della sinfonia, coadiuvato
dalle brave prime parti (l’oboe!) mentre non ho apprezzato in
modo particolare il terzo movimento, che mi sembrava troppo ansioso. Nei due
movimenti estremi ho apprezzato molto la sua capacità di gestire i cambi di
tempo che li rendono così accidentati e travagliati; in particolare nel quarto movimento mi è sembrata molto ben fatta tutta la parte iniziale con i pizzicati e il grande tema del corno, molto ben eseguito, sui tremoli degli archi. Comunque la sinfonia è
stata diretta tutta con una bella convinzione. Invece non ho apprezzato in modo particolare l’esecuzione
dell’Ouverture Tragica dove mi è parso che, soprattutto nella parte centrale,
così ombrosa e introversa, non si raggiungessero particolari profondità. Comunque Aziz
Shokhakimov ha tutta la vita davanti a sè, una vita che gli auguro lunga e proficua, per meditare e rimeditare sulle musiche che dirigerà.
Pubblico discreto anche se non particolarmente numeroso.
Buon successo complessivo anche per la Colasanti presente in sala.
Gran bel post, colmo di un'infinità di spunti su cui si potrebbe discutere per ore. Oltre a sottoscrivere la mia smodata passione per la IV diretta da Kleiber (Dio lo abbia in gloria) e per l'Intermezzo in La op. 118, dico solo che anch'io in genere quando ascolto musica vengo più catturata dal brano di per sé che dall'interpretazione: Per quanto essa possa essere meravigliosa, non è altro che una delle infinite declinazioni possibili di un'idea concepita da altri. A me interessa l'idea stessa. Tutto il resto è sovrastruttura.
RispondiEliminaCara Elena, mi fai troppo onore, veramente! Sì, è vero, a me interessa di più la musica e temo sempre il momento in cui mia moglie o qualche altra persona che ho il piacere di incontrare al concerto mi chiede: "Allora, ti è piaciuto?". Siccome sono l'opposto dello sparasentenze faccio sempre un po' la figura di quello che è perplesso ma il fatto è che devo riordinare le idee e devo trovare le parole giuste. Sai quanto è difficile trovare le parole giuste? Penso di sì. Per me, ogni volta che scrivo qui, è una gran fatica ma poi alla fine lo faccio, se trovo almeno uno spunto da cui partire. Ma se sentissi un concerto mal eseguito dal quale esco amareggiato non lo scriverei mai, me ne starei zitto.
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