venerdì 6 luglio 2012

Roberto Cominati in concerto

Ieri sera è iniziata in Auditorium la stagione estiva de la Verdi. I primi quattro concerti sono recital pianistici; l'orchestra arriverà dopo la metà del mese. Ieri sera è toccato a Roberto Cominati che ha impaginato un bel concerto con musiche di Beethoven, Bach/Godowsky e Ravel.
Apprezzo molto Roberto Cominati come pianista e come persona. L'ho visto in un'intervista che Carlo Boccadoro gli ha fatto qualche tempo fa in una trasmissione su SKY e ne veniva fuori il ritratto di una persona molto riservata, un po' misteriosa, con la passione del volo e che della professione di pianista non se ne fa un'ossessione perchè in realtà coltiva molti altri interessi. In precedenza l'avevo sentito tutte le volte che è venuto in Auditorium, nel concerto in Sol di Ravel, splendido, nel terzo di Rachmaninov, altrettanto splendido, in Mozart e nel secondo di Beethoven; mi sono perso l'ultima esecuzione del quarto di Beethoven perchè non ero a Milano. Tutte esecuzioni molto belle, ben rifinite, ben ponderate, precise. Cominati, un po' forse come Benedetti Michelangeli, può fare l'effetto di essere freddo e distaccato nelle sue esecuzioni. Sarà il modo di muoversi, di presentarsi. Certo non è un pianista che si muove molto, che strabuzza gli occhi, che posa da veggente ispirato dagli dei; è sempre molto composto e sembra non fare alcuna fatica, sembra che la musica gli scivoli sotto le punta delle dita. In realtà non è affatto freddo e bisogna osservare ciò che si sente. Guardandolo ieri sera, ad esempio, gli ho visto fare, in Beethoven, un movimento di vibrazione delle dita sul tasto come se stesse suonando uno strumento ad arco. Naturalmente quel movimento non produce effetto sul pianoforte ma mi è sembrato una manifestazione di un'intensità emotiva molto interiore; la cosa mi ha impressionato perchè, in anni passati, ho visto fare quello stesso movimento ad un grande pianista come Rudolf Serkin, che non era certo un pianista freddo.
Il Ravel di Cominati è splendido. Certo gli si addice molto con quel pianoforte così arpeggiato, con quel suono da cristalleria, con quella concezione un po' distaccata e aristocratica del suono. Ravel però è anche un autore inquietante. Certo c'è la bellezza e piacevolezza del bel suono ma ad un certo punto ti accorgi che c'è qualcosa di diverso, qualcosa di ossessionante. E' strano Ravel perchè da un lato è tutto perfetto e perfettamente cesellato, come un mobile di ebanisteria perfettamente rifinito nei minimi particolari, colori, pesi, ritmi e dall'altro Ravel manifesta delle tendenze distruttive, come se volesse mandare all'aria tutto. La Valse (qui la versione di Glenn Gould, che riteneva la versione pianistica di Ravel di modesta levatura per non dire mediocre), che è stato l'ultimo pezzo eseguito, termina con una autentica violenza al pianoforte e all'orchestra nella versione orchestrale dove il valzer diventa un incubo da cui non si esce. In precedenza Cominati ha eseguito da par suo la Pavane e i Miroirs. Credo che in generale, presso il pubblico, la considerazione di Ravel poggi soprattutto sulla sua produzione orchestrale (il Bolero!) e che la sua produzione pianistica sia poco frequentata. E' vero che Ravel ha orchestrato molti dei suoi brani pianistici ma io non considererei la sua produzione pianistica solo una preparazione per la versione orchestrale. Ad esempio il terzo brano dei Miroirs, Une barque sur l'océan, è splendido, e come non potrebbe esserlo, nella versione orchestrale, ma l'originale del 1905 lo è altrettanto e del resto ci si deve ricordare che quando nel 1901 Ravel scrive Jeux d'eau, che rimanda certamente ai lisztiani giochi d'acqua di villa d'Este, Debussy non aveva ancora scritto le sue opere più grandi per il pianoforte per cui la ricerca pianistica di Ravel non è affatto di secondo piano.
Il concerto era iniziato con la sonata n. 30 op. 109 in mi maggiore di Beethoven che contiene un primo movimento di incredibile concentrazione dove Beethoven alterna un tempo vivace ad un adagio, un secondo movimento, in minore, dal carattere di una bagatella piuttosto bizzosa, ed un finale, un tema con variazioni basate su un tema di una grandissima bellezza e profondità variato in sei strepitose variazioni. Questa è la prima delle tre ultime sonate che Beethoven, sordo ed isolato (non era più di moda!) scrisse nel 1820, le op. 109, 110 e 111. Dopo non avrebbe più scritto sonate per pianoforte. Queste sono sonate che a tutta prima non sembrano possedere particolari caratteristiche che possano attirare il pubblico; in realtà sono sonate che richiedono uno sforzo particolare di partecipazione ma è uno sforzo che vale la pena di fare per poter vivere queste ultime testimonianze beethoveniane affidate al pianoforte.
Nella prima parte del concerto, dopo Beethoven, è stata eseguita la terza suite per violoncello di Bach trascritta da Godowsky; pianisticamente molto bella ma mi è un po' scivolata via senza prendermi in modo particolare.
Buon pubblico e gran successo.

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