L’ultimo concerto di maggio dell’orchestra Verdi ha visto arrivare sul podio il giovane
Darrell Ang da Singapore che ha diretto due brani di Mendelssohn tra i quali è
stato presentato un brano di Flavio Testi.
Il brano di Flavio Testi, fiorentino, Sacrae Symphonie per tre solisti,
coro e orchestra è un brano del 1987 che quindi ha 25 anni. I testi cantati
sono biblici. La composizione è in cinque parti, la prima affidata al coro, la
seconda al tenore, la terza al soprano, a quarta al basso mentre nel finale
tutti si riuniscono in un Alleluja conclusivo. La composizione è piuttosto
aspra con sonorità prevalenti da parte dei fiati, 4 trombe e 4 tromboni. Il
titolo, ovviamente, fa riferimento all’omonima composizione di Giovanni
Gabrieli pubblicata nel 1597 ma nella composizione di Flavio Testi non si
riscontrano intenti imitativi o arcaicizzanti. Al più, nell’uso così intenso
dei fiati, si può riconoscere un riflesso del passato rivisitato con una
sensibilità moderna. La composizione ha dei passi altamente drammatici, ad
esempio l’inizio; altri invece, penso al pezzo cantato dal soprano su testo del
Cantico dei Cantici, è molto delicato con momenti di autentico raccoglimento e
di sospensione temporale. Bello il finale timidamente giubilante sull’Alleluja
che termina spegnendosi. In alcuni momenti mi sembrano evidenti alcune
allusioni a Stravinskij, quello della Sinfonia di Salmi, ad esempio. Il brano è
stato salutato da un buon applauso che è stato raccolto anche dal compositore
medesimo (89 anni portati piuttosto bene)
salito sul palco. Bravi anche i cantanti, soprattutto la soprano Anna
Carbonera che beneficiava del brano più bello, secondo mio gusto; ottimo il
coro, come sempre ben diretto da Erina Gamberini, e sicura la direzione di Ang,
che del resto è un appassionato esecutore di musica contemporanea.
Di Mendelssohn sono state eseguite le musiche di scena per
il Sogno di una notte di mezza estate e la sinfonia “Italiana”.
Le musiche di scena per il Sogno di una notte di mezzaestate furono scritte a due riprese, dapprima la ouverture, nel 1826, quando
Mendelssohn aveva 17 anni, che fu pubblicata come op. 21, successivamente, nel
1843, il resto delle musiche pubblicate come op. 61. Il capolavoro è certamente
la ouverture dove già si trovano tutte le caratteristiche dello stile di Mendelssohn;
un gran brano con bellissime melodie dove Mendelssohn incontra la leggerezza
della storia di Shakespeare traducendola in un’orchestrazione fatta di
leggerezza ed impalpabilità e dove ottiene splendidi risultati con mezzi
semplici e piccoli tocchi di colore. Il resto delle musiche di scena eseguite nel concerto (non sono state eseguite tutte le parti cantate) erano
costituite da uno lieve scherzo (ottimo il flauto di Valeria Perretti), un
agitato intermezzo, un poetico notturno dove predominano i corni (peccato per l’incertezza
iniziale) e dalla celebre marcia nuziale (avevo scritto funebre ma ho corretto!),
che fa il paro con quella dal Lohengrin di Wagner, nelle cerimonie nuziali di
tutto il mondo e quindi è uno dei brani più massacrati dagli organisti
(personalmente ne ho ascoltate varianti molto interessanti sconfinanti verso
una geniale atonalità nei vari matrimoni delle mie innumerevoli ed amatissime
cugine).
Per finire la sinfonia “Italiana” in la maggiore (ma che
termina stranamente in la minore) composta durante il viaggio in Italia tra il
1830 e il 1833. La sinfonia fu terminata il 13 marzo 1833 ed eseguita il 13
maggio dello stesso anno a Londra. Successivamente Mendelssohn la revisionò in
vista di una successiva esecuzione londinese del 18 giugno 1838 ma Mendelssohn
non era soddisfatto del risultato per cui continuò a revisionare la partitura e
ne impedì ogni esecuzione in Germania. La sinfonia fu così eseguita a Lipsia
solo il 1° novembre 1849, due anni dopo la sua morte. La sinfonia fu quindi
pubblicata solo dopo la morte di Mendelssohn come quarta sinfonia (in realtà
era la terza) e come op. 90. Nel 1875 la Breitkopf pubblicò la sinfonia nell’ambito
della Gesammtausgabe nella versione che è diventata standard e che è
comunemente eseguita, anche se anni fa Christopher Hogwood, in Auditorium, ha
eseguito la versione successiva e rimasta a livello di autografo dove si
potevano apprezzare, nei primi tre movimenti, le varianti introdotte dall’autore,
che a me personalmente piacciono molto (ne esiste anche una versione
discografica diretta da Oleg Caetani).
Darrell Ang ha diretto bene, parlando in termini generali
con tempi che mi sono sembrati azzeccati. La sinfonia è stata ben diretta con
un primo tempo molto esuberante, che è nello spirito del brano, un secondo movimento raccolto nelle sue sonorità più tenui, un terzo movimento, che è uno dei brani che in
assoluto prediligo, eseguito in modo molto convincente (in questo brano,
personalmente, ho sempre un termine di paragone quasi impossibile, ovvero
Toscanini; mi dispiace, ma nessuno fraseggia come lui) e un finale, il
Salterello, eseguito con un impeto che
raramente ho sentito in esecuzioni dal vivo.
Quello che è risultato evidente da subito, fin dalla
ouverture del sogno che ne ha fatto un po' le spese, è stata la sonorità dell’orchestra di Ang, un orchestra
dove in genere i fiati tendevano ad essere troppo presenti. Così talvolta l’esecuzione
risultava un po’ pesante, ad esempio nella ouverture del Sogno di una notte di mezza, anche se questo
non andava sempre a scapito degli archi. Splendidi i violini, primi e secondi,
con trasparenze molto belle ma anche con perentorie uscite come nei tempi
estremi della sinfonia.
Darrell Ang, quindi, mi è parso un ottimo direttore con un
grande istinto orchestrale ma che dovrebbe riuscire a contenersi un po’ di più
in certi momenti. Comunque a me personalmente è piaciuto molto e preferisco ascoltare delle esecuzioni anche
eccessivamente accese da parte di un direttore che fa suonare l’orchestra
piuttosto che ascoltare un direttore linfatico che produce esecuzioni esangui.
Buon pubblico e buon successo.
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