
Il Ravel di Cominati è splendido. Certo gli si addice molto con quel pianoforte così arpeggiato, con quel suono da cristalleria, con quella concezione un po' distaccata e aristocratica del suono. Ravel però è anche un autore inquietante. Certo c'è la bellezza e piacevolezza del bel suono ma ad un certo punto ti accorgi che c'è qualcosa di diverso, qualcosa di ossessionante. E' strano Ravel perchè da un lato è tutto perfetto e perfettamente cesellato, come un mobile di ebanisteria perfettamente rifinito nei minimi particolari, colori, pesi, ritmi e dall'altro Ravel manifesta delle tendenze distruttive, come se volesse mandare all'aria tutto. La Valse (qui la versione di Glenn Gould, che riteneva la versione pianistica di Ravel di modesta levatura per non dire mediocre), che è stato l'ultimo pezzo eseguito, termina con una autentica violenza al pianoforte e all'orchestra nella versione orchestrale dove il valzer diventa un incubo da cui non si esce. In precedenza Cominati ha eseguito da par suo la Pavane e i Miroirs. Credo che in generale, presso il pubblico, la considerazione di Ravel poggi soprattutto sulla sua produzione orchestrale (il Bolero!) e che la sua produzione pianistica sia poco frequentata. E' vero che Ravel ha orchestrato molti dei suoi brani pianistici ma io non considererei la sua produzione pianistica solo una preparazione per la versione orchestrale. Ad esempio il terzo brano dei Miroirs, Une barque sur l'océan, è splendido, e come non potrebbe esserlo, nella versione orchestrale, ma l'originale del 1905 lo è altrettanto e del resto ci si deve ricordare che quando nel 1901 Ravel scrive Jeux d'eau, che rimanda certamente ai lisztiani giochi d'acqua di villa d'Este, Debussy non aveva ancora scritto le sue opere più grandi per il pianoforte per cui la ricerca pianistica di Ravel non è affatto di secondo piano.
Il concerto era iniziato con la sonata n. 30 op. 109 in mi maggiore di Beethoven che contiene un primo movimento di incredibile concentrazione dove Beethoven alterna un tempo vivace ad un adagio, un secondo movimento, in minore, dal carattere di una bagatella piuttosto bizzosa, ed un finale, un tema con variazioni basate su un tema di una grandissima bellezza e profondità variato in sei strepitose variazioni. Questa è la prima delle tre ultime sonate che Beethoven, sordo ed isolato (non era più di moda!) scrisse nel 1820, le op. 109, 110 e 111. Dopo non avrebbe più scritto sonate per pianoforte. Queste sono sonate che a tutta prima non sembrano possedere particolari caratteristiche che possano attirare il pubblico; in realtà sono sonate che richiedono uno sforzo particolare di partecipazione ma è uno sforzo che vale la pena di fare per poter vivere queste ultime testimonianze beethoveniane affidate al pianoforte.
Nella prima parte del concerto, dopo Beethoven, è stata eseguita la terza suite per violoncello di Bach trascritta da Godowsky; pianisticamente molto bella ma mi è un po' scivolata via senza prendermi in modo particolare.
Buon pubblico e gran successo.
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